Penale

La «spazzacorrotti» resta retroattiva sui permessi

immagine non disponibile

di Giovanni Negri

La decisione della Corte costituzionale che ha bocciato la retroattività della stretta sulle condizioni di esecuzione della pena voluta dalla legge «spazzacorrotti» non coinvolge la totalità dei benefici penitenziari. Non colpisce, infatti, la portata retrattiva su permessi premio e lavoro all’esterno.

Per quanto, ammette la Consulta, non si possa ignorare l’impatto di questi benefici sul grado di concreta afflittività della pena per il singolo condannato, «non pare a questa Corte che modifiche normative che si limitino a rendere più gravose le condizioni di accesso ai benefici medesimi determinino una trasformazione della natura della pena da eseguire, rispetto a quella comminata al momento del fatto e inflitta, sì da chiamare in causa la garanzia costituzionale in parola».

Così, nella lettura della Corte, il condannato che utilizza un permesso premio o che è ammesso al lavoro all’esterno del carcere, continua a scontare una pena che resta caratterizzata da una fondamentale dimensione carceraria. Resta in linea di principio “dentro” il carcere, continuando a essere soggetto alla disciplina restrittiva che caratterizza l’istituzione penitenziaria e che coinvolge tutti gli aspetti della vita del detenuto.

Tuttavia la Corte invita a una gestione accorta dei casi. Proprio perché i condannati ammessi periodicamente all’utilizzo di permessi premio e a svolgere lavoro all’esterno restano detenuti che scontano la pena detentiva loro inflitta «non può non valere nei loro confronti l’esigenza di evitare disparità di trattamento, all’interno del medesimo istituto penitenziario, dipendenti soltanto dal tempo del commesso reato: disparità che sarebbero di assai problematica gestione da parte dell’amministrazione penitenziaria, e che verrebbero come tali difficilmente accettate dalla generalità dei detenuti».

Discorso diverso invece fa la Corte per l’affidamento in prova al servizio sociale, per la detenzione domiciliare nelle sue varie forme e per la semilibertà. Si tratta, ricorda la sentenza facendo riferimento a un precedente (sentenza n. 349 del 1993), di misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena e che hanno un impatto importante sul grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto; misure caratterizzate poi non solo dalla limitazione della libertà personale del condannato assai più contenuta, ma anche da una forte intenzione rieducativa.

Stessa conclusione vale poi per la liberazione condizionale, istituto anche questo che ha come obiettivo il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena a chi ha, durante il percorso penitenziario, tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.

Come pure l’esito è lo stesso per quanto riguarda il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena che ha come immediata conseguenza che una parte almeno della pena è effettivamente scontata in carcere, invece che con le modalità extracarcerarie che erano consentite per l’intera durata della pena inflitta sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto.

La sentenza respinge poi l’obiezione per cui la prospettiva per il condannato di vedersi applicata una misura alternativa è solo ipotesi, non realtà. Infatti, osserva la Consulta, la valutazione sulla natura peggiorativa della disciplina sopravvenuta «non può, infatti, che essere condotta secondo criteri di rilevante probabilità: e ciò con riferimento tanto ai benefici accessibili per il condannato sulla base della disciplina previgente, quanto alle conseguenze deteriori che derivano dall’entrata in vigore della nuova disciplina».

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©