Penale

Legittimi i limiti al potere di appello da parte del Pm

di Giovanni Negri

In un dibattito sulle politiche della giustizia da tempo monopolizzato dal tema prescrizione e, in questo contesto, dalla legittimità della distinzione tra condannati e assolti e tra parti del processo, ha una rilevanza particolare la sentenza della Corte costituzionale con la quale ieri sono stati considerati legittimi i limiti al potere di impugnazione del pm introdotti 2 anni fa.

La pronuncia, la n 34, scritta da Franco Modugno, ha così respinto come infondata la questione di legittimità sollevata dalla Corte d’appello di Messina sull’articolo 593 del Codice di procedura penale, nella versione successiva alla riforma del 2018, che ammette l’appello del pm contro le sentenze di condanna, solo quando modificano il titolo del reato o escludono la esistenza di un’aggravante o stabiliscono una pena diversa da quella ordinaria del reato. Per la Corte d’appello, la norma violerebbe il principio di parità delle parti perchè impedirebbe alla pubblica accusa, a confronto con il diverso potere dell’imputato, di impugnare condanna del tutto inadeguate alla gravità dei fatti.

La Consulta, nell’affrontare il tema, ricorda innanzitutto, facendo riferimento a precedenti costanti, che, nel processo penale, il principio di parità tra accusa e difesa non conduce con sè necessariamente all’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato. Il processo penale è caratterizzato, infatti, da una asimmetria “strutturale” tra i due antagonisti principali.

Nello specifico poi dei poteri di impugnazione, tenendo conto che la garanzia del doppio grado di giudizio è priva di un riconoscimento costituzionale, la Corte costituzionale sottolinea come il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenta, così si espresse la Consulta nel 2007 con la sentenza n. 26 sulla legge Pecorella (invocata peraltro anche dalla Corte d’appello di Messina) che impediva al pm l’impugnazone delle assoluzioni, «margini di “cedevolezza” più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato».

Allora, comunque, la Consulta ritenne che la diversità di trattamento ai danni del potere del Pm fosse troppo ampia e assoluta, in contrasto quindi con adeguatezza e proporzionalità e bocciò la previsione.

Con riferimento all’intervento del 2018, invece, le conclusioni sono diverse. L’obiettivo fondamentale della riforma è la deflazione e la semplificazione dei processi, per garantirne la ragionevole durata. In questa prospettiva, una specifica attenzione viene dedicata al giudizio di appello, da tempo il segmento processuale più critico.

In questo caso, nella valutazione della Consulta, i limiti all’appello del Pm non sono incompatibili con il principio principio di parità delle parti. «La limitazione del potere di appello della parte pubblica persegue, infatti, l’obiettivo, di rilievo costituzionale (articolo 111, secondo comma, Costituzione), di assicurare la ragionevole durata del processo, deflazionando il carico di lavoro delle corti d’appello».

A differenza della legge Pecorella, prosegue la sentenza, la preclusione riguarda, sentenze che hanno accolto la “domanda di punizione” proposta dal pubblico ministero e che «non hanno, altresì, inciso in modo significativo sulla prospettazione accusatoria (mutando la qualificazione giuridica del fatto, escludendo aggravanti a effetto speciale o applicando una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato). Essa risulta, quindi, contenuta e non sproporzionata rispetto all’obiettivo». In un sistema ad azione penale obbligatoria, infatti, osserva la sentenza, il legislatore può introdurre limiti all’esercizio della funzione giurisdizionale per garantire una durata ragionevole ai processi.

Corte costituzionale- Sentenza 34/2020

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