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LA CHIUSURA DI UN ACCESSO SI DELIBERA A MAGGIORANZA

La domanda

Abito in un contesto condominiale di otto edifici, disposti in linea per una distanza di circa 500 metri. L'ultimo edificio, quello dove abito io, si trova a poca distanza da un'area soggetta ad atti vandalici e decisamente mal frequentata (vi si trovano materassi per pernottamenti "di fortuna", siringhe eccetera). Abbiamo chiesto all'amministratore di chiudere l'accesso da questa parte di edificio, a tutela della sicurezza delle persone e delle parti comuni, suggerendo di utilizzare una struttura rimovibile, a spese di noi condòmini dell'edificio "confinante". L'amministratore ci ha detto che servirebbe il consenso di tutti i proprietari, ma gli altri non hanno intenzione di aderire a una chiusura totale. Che cosa possiamo fare?

Preliminarmente, non avendo specificato se siamo nell’ambito di un supercondominio o meno, e di quanti condòmini è costituito il “contesto condominiale”, si reputa comunque utile fare riferimento a una sentenza della Corte di cassazione, la 4340/2013, la quale ha stabilito che «la delibera assembleare con la quale si dispone la chiusura di un’area di accesso al fabbricato per disciplinare il transito e impedire l’accesso indiscriminato da parte di terzi attiene all’uso della cosa e alla sua regolamentazione e non incide sull’essenza del bene comune né altera la sua funzione o destinazione. Non ci sono dunque i requisiti che caratterizzano l’innovazione in senso tecnico». Ne deriva, pertanto, che, in linea generale, la deliberazione necessaria al fine di “proteggere” l’edificio condominiale dovrà essere assunta a norma dell’articolo 1136, 2° comma, del Codice civile (ossia con la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà dei millesimi di proprietà). È buona prassi, comunque, capire se il condominio ha stipulato un’assicurazione che lo tuteli conto gli atti vandalici.Nell’analizzare le possibili soluzioni contro gli atti vandalici, si ricordi che, con la legge 220/2012, di riforma del condominio (entrata in vigore il 18 giugno 2013), è stato introdotto il nuovo articolo 1122-ter del Codice civile, rubricato “impianti di videosorveglianza sulle parti comuni”, secondo il quale «le deliberazioni concernenti l’installazione sulle parti comuni dell’edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono approvate dall’assemblea con la maggioranza di cui al secondo comma dell’articolo 1136 del Codice civile». Al riguardo, si reputa interessante fare riferimento alla sentenza 71/2013 della Corte di cassazione, con la quale è stato stabilito che «ogni condomino può installare, in via d’urgenza, sistemi di videosorveglianza su aree comuni, senza bisogno di approvazione dell’assemblea condominiale, con diritto al rimborso delle spese anticipate».In generale, tutte le spese relative alle parti comuni dell’edificio, comprese quelle necessarie per installare impianti di videosorveglianza, devono essere sempre autorizzate dall’assemblea. Questo principio non si applica, tuttavia, in situazioni di urgenza e di necessità, ossia quando, per evitare un pregiudizio grave e imminente, non vi sia stato il tempo per far deliberare l’assemblea (che dovrà decidere a norma del 2° comma dell’articolo 1136 del Codice civile). Sicché, in casi di necessità e urgenza, ogni condomino può installare, a proprie spese, telecamere di sicurezza in uno spazio condominiale, senza che vi sia stata la previa autorizzazione dell’assemblea. In ogni caso, comunque, l’installazione delle telecamere deve sempre rispettare alcune regole volte a evitare che si possa ledere l’altrui privacy e incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata.Da quanto appena esposto, dunque, si può affermare che la legge offre vari strumenti per mettere “in sicurezza” il condominio e i suoi “abitanti”.

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